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L’Intervista

A colloquio con Giulio De Mitri e Giovanna Tagliaferro

di Silvano Trevisani, dal libro “Creatività e inclusione”

Venticinque anni costituiscono un arco di tempo più che sufficiente per verificare la validità di un metodo educativo, soprattutto se caratterizzato da una dinamica singolare come quella messa in campo, fin dal 1987, da “L’Isola della fantasia” e dalla “Fondazione Rocco Spani onlus” che la gestisce, insieme ad altri servizi sorti nel corso degli anni.

 Abbiamo già chiarito che la singolarità del progetto di cui parliamo sta nel mettere la creatività e l’espressione artistica al centro di un’offerta culturale e formativa tesa all’inclusione sociale di minori a rischio di devianza, provenienti dalla Città vecchia e dai quartieri più marginali della Città. Insomma: un metodo specifico e attivo, nato sull’onda del munariano “giocare con l’arte”, rivisitato e adeguato però alle più particolari esigenze di minori con carenze affettive, culturali e sociali. Questo metodo pedagogico-didattico riconosce nell’arte un’efficace terapia attraverso la quale l’individuo può manifestare i propri turbamenti, liberandosi così di quelle forze negative che minacciano il suo equilibrio psicofisico.

Proviamo ad analizzare la storia di questo “progetto-processo” con l’aiuto di due protagonisti autorevoli della Fondazione: l’ideatore e presidente Giulio De Mitri (noto artista e professore ordinario di prima fascia in Tecniche e tecnologie delle arti visive nell’Accademia delle Belle Arti di Catanzaro, già docente di Pedagogia e didattica dell’arte, di Antropologia culturale, di Metodologia, strumenti e tecniche didattico-espressive in diverse Accademie e Università italiane) da sempre l’ideatore dei progetti culturali della Fondazione, e Giovanna Tagliaferro, direttore generale della stessa, presso la quale opera dal 1994, dopo aver acquisito un curricu-lum di notevole prestigio professionale (laurea in Servizio Sociale all’Università degli Studi di Chieti, perfezionamento in “La tutela del minore: aspetti educativi, giuridici e psicologici”, all’Università degli Studi di Ferrara, mediatore familiare) e coordinatrice di tutti gli aspetti pedagogici-educativi.

D.: “L’Isola della Fantasia” ha ormai superato abbondantemente i 25 anni di vita, un periodo più che sufficiente per fare un bilancio di un metodo maturato nel corso degli anni. Cominciamo col ricordare: perché nasce questo laboratorio urbano che si trova ad affrontare problemi di natura sociale, culturale, politica e pedagogica? Su quali presupposti nasce? Cosa vi ha spinto realmente a intraprendere quest’avventura, della quale forse neppure avreste immaginato l’entità e la durata?

De Mitri: Le motivazioni sono diverse. Sicuramente la principale è

di natura sociale, se riferita all’ambiente in cui l’esperienza è nata, ovvero la Città vecchia di Taranto, un quartiere che fino a pochi decenni prima era stato il cuore pulsante della città e ora ne è diventato il margine. Sono nato nella Città vecchia. Mio padre era il medico del quartiere, accudivo mia nonna che, nel 1985, aveva 89 anni… insomma: avevo ed ho un forte legame affettivo e identitario con il “cuore” di Taranto. La Città vecchia è parte integrante del mio vissuto. In quegli anni Ottanta a Taranto prendeva corpo un “forte” movimento culturale e sociale che tentava di frenare il degrado, puntando sulla rinascita dell’antico centro storico. Questo è stato un fattore importante e determinante. In quegli stessi anni collaboravo in qualità di consulente per l’Assessorato alla Cultura del Comune di Taranto. La mia competenza specifica riguardava le arti visive, ovvero l’arte contemporanea, ancora una volta l’arte diventa il fulcro delle attività nel centro storico. Ricordiamo alcuni eventi: la mostra di “Capogrossi” e le rassegne: “La cresta dell’onda”, “Mare Nostrum”, “Un tempio per il mare”, “Artisti in via Cava”, ecc. L’assessorato alla Cultura del Comune insediò la propria sede nel centro storico a Palazzo Galeota, freschissimo di restauro, un presidio amministrativo rimasto stabile a tutt’oggi nel quartiere.

Rimettere al centro dell’attenzione pubblica il quartiere, intraprendere

un nuovo percorso – al di là di tutte le analisi più o

meno sociologiche che sono state tentate in passato con forti con-

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Un percorso di verifica. A colloquio con Giulio De Mitri e Giovanna Tagliaferro dizionamenti ideologici – che rispondesse all’effettiva esigenza di creare spazi di vita e di cultura nuovi, diventa una vera e propria sfida, un’alternativa credibile alla realtà esistente se vengono attivati modelli culturali idoneamente progettati, e nuove forme di riaggregazione sociale, che recuperano l’esperienza stessa del quartiere e la ricaricano di nuove valenze sociali ed umane. Non è cosa semplice. È una sfida di notevole impegno, di grande responsabilità nei confronti dell’intero quartiere.

Con queste essenziali motivazioni inizia il nostro lavoro nel centro storico e a tutt’oggi la sfida continua…

D.: Insomma, pensavate di innestarvi in questo “immaginato” processo

di rinascita, dando un segnale di attenzione agli abitanti del

De Mitri: Sì è così. La Città vecchia, caduta in uno stato di semiabbandono, rivive un momento di rinascita, grazie a una serie di attività che trovano sostanza in alcuni eventi culturali e in interventi edilizi che si andavano man mano concretizzando soprattutto nella zona centrale del quartiere. Proprio in quella zona, all’interno di questa nuova ottica, nasce il progetto “Laboratorio urbano”, un laboratorio sociale all’insegna delle arti visive e dell’animazione per offrire a bambini, ragazzi e adulti la possibilità di scoprire una nuova qualità della vita, sollecitando in essi quella ricchezza interiore innata di cui essi stessi sono portatori. Un laboratorio di co-educazione permanente per una formazione diversa, alternativa e perché no innovativa. Costruire insieme una “scienza pratica dell’educazione” nella quale gli artisti e gli operatori coinvolti legavano la propria esperienza del fare ad una didattica attiva e socializzante (alcuni di loro avevano già acquisito esperienza di quanto si stava realizzando, con le pratiche dell’arte nei Musei di Brera, Faenza e “Pecci”). Il progetto riscosse da subito la fiducia di molte famiglie del quartiere, numerosa la partecipazione spontanea di bambini e ragazzi che si “appropriavano” degli spazi fisici del laboratorio, sentendosi veri protagonisti, cementando di fatto nuovi sentimenti di appartenenza e di solidarietà, in una figurazione ideale di comunità, opposta all’esistente degrado e alla marginalità del quartiere.

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Creatività e inclusione

D.: Quanto c’era di “coscienza sociale” nel tentare questa sfida e quanto di “presupposto emotivo”? Infine: quanto incideva l’impegno “politico” che l’arte ancora esprimeva in quel decennio?

De Mitri: La coscienza sociale sicuramente c’era: gli artisti, gli intellettuali e gli operatori culturali in quegli anni operavano spesso nel sociale. Personalmente non ho mai disgiunto l’arte dalla vita. L’arte è parte integrante della mia esistenza, il mio lavoro è sempre stato caratterizzato da questa continua interazione. Qualsiasi evento artistico nasce da un progetto culturale ben definito. Non un divertissement fine a se stesso, ma un continuo lavoro etico ed estetico. E questo è stato il fil rouge, per molti artisti, che in quegli anni, venivano definiti “impegnati”. Non dimentichiamo che la nostra genesi ha profonde radici in quella cultura artistica degli anni Settanta che ha sempre privilegiato e sostenuto la validità dei rapporti tra arte e società, stigmatizzando idealità e funzione sociale dell’arte. In quegli anni l’arte non poteva essere un manufatto estetico per il solo sistema mercato e tanto meno un’arte autoreferenziale che definiva solo se stessa. Molti artisti attraverso azioni e performance denunciavano le diverse problematiche sociali, si mobilitavano con il proprio linguaggio in strutture collettive e inusuali: dalla fabbrica alla scuola, alle piazze di quartieri periferici, apportando con la pratica artistica nuovi contributi culturali e sociali –fuori dalle logiche di mercato – per una migliore qualità della vita. L’arte in quegli anni ha un ruolo di forte denuncia. Ricordo a tal proposito l’operatività e il pensiero di Joseph Beuys: «abbiamo il dovere di mostrare al mondo ciò che siamo stati capaci di fare nella nostra vita».

D.: Ma naturalmente l’inizio dell’attività del Laboratorio era orientata da un certo spontaneismo, soprattutto se prendeva il sopravvento la componente artistica, che caratterizzava voi artisti in prima linea, su quella pedagogico-educativa.

De Mitri: Chiaramente non volevamo sostituirci alle istituzioni e

tanto meno alle agenzie educative del territorio. Il nostro entusiastico e spontaneo aprirci al quartiere puntava a valorizzare in primis la storia e la vita individuale di ogni singolo minore (più che la problematica del contingente), superando così l’indifferenza, l’insensibilità verso gli altri e i loro problemi. Si sa che l’amicizia, la solidarietà, la nonviolenza sono i primi valori che bisogna trasmettere a bambini e ragazzi. L’inizio dell’attività laboratoriale non è stata mai inquadrata in una burocratica struttura decisionale e rigida, ma è sorta dalla libera collaborazione di singoli individui. Nonostante le tante difficoltà, nella nostra organizzazione sociale afferivano artisti, come accennavo precedentemente, che possedevano già un notevole background culturale, evitando, così, di “cadere” nelle trappole della banalità tipica degli interventi estemporanei ed effimeri. La nostra esperienza artistica e culturale – frutto di studio e di competenze acquisite nel corso degli anni – ci ha permesso di capire (anche quando i problemi da individuare non erano minimamente palesi) come ben intervenire in una realtà difficile. La nostra operatività non è mai caduta in logiche autoritarie proprie di altre agenzie formative come la scuola, che pone spesso il rapporto su scala gerarchica e punitiva o semplicemente respingendo gli aspetti più problematici o creando una selezione di comodo che è nel contempo di emarginazione. Ai ragazzi, che provenivano da fasce di emarginazione, offrivamo innanzitutto con le nostre pratiche artistiche una sorta di “alfabetizzazione affettiva”.

L’arte ha la forza di diventare un gioco creativo straordinario, non si blocca in formule matematiche, investe la complessità del mondo interiore di ogni individuo.

L’arte nasce come bisogno di espressione dell’essere umano ancora prima di essere utilizzata come linguaggio. Il bambino per sua fortuna inizia a scarabocchiare e a disegnare ancora prima di parlare. Il tempo ci ha dato ragione. Il nostro progetto si è ampliato e nel contempo rafforzato anche in funzione delle tante e diversificate difficoltà, che hanno investito la nostra quotidianità. Il 30 giugno del 1989, dopo un anno di proficua e intensa attività, e con il contributo di intellettuali ed operatori sociali, si costituisce – per stabilizzare, pianificare e sostenere il lavoro già svolto – la Fondazione “Rocco Spani” (dedicata alla memoria dell’insegnante Rocco Spani, educatore ed attento osservatore delle problematiche minorili, deceduto nel 1976), organizzazione no profit e di volontariato il cui scopo sociale e le relative finalità sono l’Educazione, la Cultura e la Solidarietà per la tutela, la promozione e la valorizzazione di chi vive – minori e famiglie – il disagio e l’emarginazione sociale.

Con l’istituzionalizzazione della Fondazione, il “Laboratorio sperimentale di arti visivi e di animazione” diventa “L’Isola della fantasia”, che si rafforza e si sostanzia, concretizzando permanentemente la sua funzione educativa, densa di valori civili, etici e morali.

D.: Siete partiti da Munari, ma è facile immaginare che ci fosse una differenza essenziale tra il mondo dei minori “non a rischio”, cui si rivolgeva il progetto munariano, e la realtà della quale dovevate occuparvi voi, caratterizzata dalla presenza di minori in condizioni di grave disagio.

De Mitri: Effettivamente c’è una differenza sostanziale. Abbiamo adattato alla nostra realtà il metodo munariano di “Giocare con l’arte”, quello che è nato attraverso il museo (basti pensare che Munari realizzò il primo laboratorio per bambini negli anni Settanta, nella Pinacoteca di Brera, una realtà particolarmente qualificata dal punto di vista culturale e sociale, con una utenza proveniente dalle migliori scuole del capoluogo lombardo). Ci siamo resi conto da subito che vi erano delle differenze sostanziali di cui bisognava tener conto sia nella pratica artistica che nelle modalità di relazione, avendo a che fare con minori “a rischio di devianza” e con un livello di scolarizzazione molto basso. Noi non avevamo, e non abbiamo ancora oggi a Taranto, un contenitore di arte contemporanea, pertanto non potevamo far vedere opere d’arte ai nostri ragazzi. Siamo partiti rielaborando e riadattando il laboratorio all’identità dell’“Isola”, ovvero del centro storico. La pratica laboratoriale si è avviata – collegata con i programmi scolastici nei diversi gradi d’istruzione dei nostri minori – attraverso la conoscenza dei beni naturali e culturali che la nostra millenaria storia ci ha consegnati, presenti sia nel centro storico che nell’intero territorio jonico. Ci siamo impegnati e interessati alla ri-scoperta degli insediamenti rupestri, dei siti archeologici, sino a raggiungere la cultura materiale: strumenti e utensili della civiltà marinara e contadina, ritrovando il valore delle nostre radici e della nostra genesi. Poi nei nostri laboratori abbiamo operato con i linguaggi delle arti visive (disegno, pittura, decorazione e scultura), concretizzando queste ri-scoperte in veri e propri progetti per comprendere meglio il senso della cultura e della storia, evocare memorie, fascino e suggestioni, avvicinarsi alla conoscenza e al sapere, interrogarsi e darsi risposte, maturare riflessioni e stimoli per nuovi interessi, cogliere il carattere della propria origine, il senso del lavoro e tantissimi altri aspetti. Sperando che nei ragazzi cresca e si affini un’attenta sensibilità verso l’ambiente, la sua storia, le sue origini.

D.: A questo punto ci chiediamo: come si innesta l’attività di professionista dell’assistenza sociale, della formazione, della pedagogia, della psicologia in questo progetto avviato sostanzialmente da artisti, anche se caratterizzati da una componente educativa, trattandosi spesso anche di insegnanti? Quali problemi ha comportato?

Tagliaferro: L’interazione non è stata molto difficile. Va detto però che chi opera all’interno dei suddetti ambiti professionali ha una preparazione e una forma mentis diversa da quella degli artisti. Proprio questa diversità unita a una particolare dote di sensibilità e di predisposizione sostiene e accoglie i linguaggi della creatività artistica, che – lo sottolineo con forza – resta la peculiarità innovativa del progetto pedagogico-educativo della Fondazione. Quando iniziai questa grande avventura condivisi l’ideaprogetto all’insegna della creatività: l’uso finalizzato della fantasia e tutte le innumerevoli forme di espressioni artistiche venivano messe in campo. Gli artisti promuovevano e organizzavano eventi, laboratori site specific, installazioni, pièce, performance, interventi, animazione teatrale, fotografia, videotape. Mi conquistò subito lo stupore, la meraviglia e la spontaneità che ogni bambino tirava fuori da ogni evento. Così ho cominciato ad interessarmi anch’io, facendo emergere la mia componente “bambina”, quella componente che ognuno di noi dovrebbe tener sempre viva e stretta a sé, ma che l’evoluzione della nostra esistenza spesso tende a porre in secondo piano. Il primo dei tanti risultati positivi è stato quello di ottenere dai minori la loro spontanea aggregazione.

Attraverso l’attività in forma di gioco – il loro stare insieme, il mettersi d’accordo nelle iniziative – si può innestare validamente un progetto educativo. Infatti, attraverso le tante attività i bambini e i ragazzi imparano a conoscere il mondo, a sperimentare il valore delle regole, a stare con gli altri, a gestire le proprie emozioni, a scoprire nuovi percorsi di autonomia, sperimentando, per tentativi, cose positive e negative, errori, convinzioni sulle cose e sugli altri. Il gioco è per sua natura e per suo statuto Educante. È il clima ideale in cui l’identità del bambino può consolidarsi.

D.: Hai parlato di “avventura”. Una parola che si sposa con “ignoto” o con “scommessa”?

Tagliaferro: Se vogliamo con entrambe le cose. La nostra è un’avventura per scelta consapevole, e tale resterà poiché ogni giorno reinventiamo la nostra attività, dal momento che nei nostri laboratori non utilizziamo i prestampati o i quaderni da colorare, e tantomeno ci affidiamo pedissequamente alle teorie, elaborate nel campo del recupero o dell’integrazione scolastica. La nostra attività si nutre di ricerca e di creatività… una creatività che si sviluppa, anche, in base alle difficoltà e al contesto in cui si opera. La creatività è stata definita, nei tempi più recenti, dalla psicologia e della filosofia come quella attitudine mentale caratterizzata da intuizioni, originalità nell’ideare, capacità di analisi e di sintesi, abilità di definire e strutturare le proprie esperienze e conoscenze in modo nuovo ed originale. Interpretare i dati della realtà in maniera insolita e del tutto personale. La creatività, pertanto, è uno dei tratti salienti del comportamento umano ed è dettata da un’intelligenza non logica più evidente in alcuni individui che sono in grado di produrre novità e cambiamento, intuire nuove connessioni tra pensiero ed oggetti. Il soggetto creativo è stato spesso eguagliato alla figura dell’artista geniale, all’inventore, ma anche al folle o all’uomo dedito ad una vita sregolata come i cosiddetti “poeti maledetti”. Tutti questi sono luoghi comuni. La creatività non riguarda solo l’ambito artistico, è la capacità di trovare soluzioni alternative ai problemi che la realtà pone. La creatività è intesa come immaginazione scientifica, afferma il filosofo Popper, che scaturisce da un pensiero divergente, un pensiero critico sempre alla ricerca di soluzioni migliori e perciò nuove.

D.: All’artista chiedo: d’altra parte l’artista è costretto anche a diventare formatore, ad affinare certe capacità che non sono propriamente intrinseche al proprio modo di esprimersi. Anche tu, nel portare qui artisti e allievi dell’Accademia avrai constatato la difficoltà di operare e la necessità di imparare a relazionarti con i minori.

De Mitri: È evidente: le difficoltà sono tante. Già l’insegnante di per sé non è detto che riesca a trovare una efficace modalità di relazione con i propri allievi, figuriamoci un artista che nonostante si confronti con il “mondo esterno”, non è detto che abbia un feeling diretto con tutti. A meno che non abbia una predisposizione innata e tempo a disposizione. Munari, negli anni Quaranta, inventò una serie di giochi per il proprio figliolo, con elementi molto semplici. Realizzò libri, inventò favole con macchie di umidità, con sassi, con materiali di risulta, trovati in una vecchia baracca in riva al mare, vicino alla casa in cui trascorreva con la famiglia le vacanze estive. Diciamo che è molto difficile relazionarsi con i minori, bisogna formarsi, studiare e documentarsi continuamente.

La società contemporanea è in continuo movimento e mutamento:

richiede sempre più un’approfondita e scientifica preparazione per consentire l’accesso al mondo del lavoro e, in particolar modo, a tutte quelle professioni che operano nel difficile campo del disagio minorile. Potenzialmente quasi tutti gli operatori vengono affascinati da incontri insoliti e diversi, ma per incontrare i bambini e i ragazzi “difficili” bisogna attrezzarsi, procedendo per gradi e con la dovuta attenzione e cautela, perché mai nessuno potrà “entrare” ed “uscire” dalla vita di un altro essere umano indenne o senza aver arrecato danni, anche in buona fede, e nonostante sia attrezzato di notevole capacità professionale.

D.: Ma si incontrano anche minori che non intendono “collaborare”.

De Mitri: Succede spesso di incontrare minori che non vogliono

collaborare. Nel nostro lavoro non puntiamo mai a “imporre” qualcosa, ma facciamo in modo che la richiesta di collaborazione nasca spontaneamente dai ragazzi, come afferma Giovanna Tagliaferro, ci limitiamo a dare il nostro contributo senza forzature, quasi indirettamente. Se dovessimo al contrario imporre la collaborazione ci comporteremmo come alcuni insegnanti istituzionali, attivando in loro una reazione negativa. Tuttavia dobbiamo anche saper accettare le reazioni non collaborative, di fronte alle quali non si interviene con la punizione o con altre strategie che ci riportino nell’alveo dei comportamenti scolastici, ma dobbiamo attivarci cercando di capire l’origine di tali comportamenti e nel contempo gestire e contenere al meglio la non collaborazione.

I motivi della non collaborazione, considerando tutte le possibili e diversificate sfumature, sono all’ordine del giorno. Per rimuovere le cause di tali comportamenti dobbiamo possedere competenza e come afferma Canevaro: un’appartenenza chiara e strutturata.

D.: I ragazzi, ora come 25 anni fa, continuano a venire all’Isola.

Cosa li porta da voi?

Tagliaferro: Molti ragazzi si avvicinano all’“Isola” perché sono incuriositi. Il fatto di veder entrare ed uscire tanti ragazzi così allegri e sereni è contagioso: gli altri si chiedono “cosa c’è lì dentro”? E vogliono scoprirlo. Poi vengono e scoprono un ambiente accogliente, bello, colorato, solare. L’Isola offre queste occasioni il che mi induce a definirla: “L’Isola della felicità”, oltre che della fantasia: star bene insieme e in allegria li attira. Un clima socializzante, diversificato da numerose iniziative ed eventi che si succedono quotidianamente nell’arco dell’anno. Gli spazi dei laboratori sono strutturati a misura di bambino, hanno a disposizione strumenti, attrezzature e materiali. Sta a loro poi svolgere le attività, scegliendo in piena libertà e senza condizionamenti. A differenza di quanto avviene solitamente in altre istituzioni, dove occorre attendere che sia l’educatore a decidere cosa fare e quando, da noi è il minore a decidere cosa fare. Innanzitutto si trova di fronte ai propri elaborati, che noi esponiamo a rotazione e che diventano simbolo della loro crescita e patrimonio comune di un percorso. Alcuni ragazzi ce li ritroviamo adulti, anche oltre i vent’anni: tornano nel centro perché hanno nostalgia di ricordare quello che facevano da piccoli? O perché consapevoli di aver conquistato una cittadinanza attiva e solidaristica? A voi la riflessione!

D.: La Fondazione ha aperto altre strutture, come la comunità educativa residenziale “Guglielmo De Feis”. Cosa ha cambiato la nascita di questa nuova struttura nel vostro modo di approcciarvi ai ragazzi e al territorio?

Tagliaferro: L’apertura di una nuova struttura a carattere residenziale è nata per una chiara esigenza formulata dal nostro territorio: il Tribunale per i Minorenni ed i Servizi sociali del Comune di Taranto. Questi enti, riconoscendo tanto impegno nel nostro lavoro, ci invitarono a realizzare una nuova struttura di accoglienza, una comunità educativa che rispondesse a distinte e diverse tipologie di servizio. Un nuovo progetto educativo caratterizzato da una progettualità e organizzazione più complessa: presenza costante di un’èquipe educativa, risorse e strumenti per accogliere i minori in un progetto a tutto tondo, capace di accompagnare i minori in un percorso educativo individualizzato e compatibile con le esigenze della loro personalità in formazione. Come afferma Luigi Pati: «il momento della personalizzazione postula da parte dell’educatore la piena accettazione del minore, che può così sviluppare un forte sentimento di appartenenza. Ciò non significa misconoscere l’esperienza trascorsa dal minore; fa intendere invece come soltanto nell’efficacia del rapporto educativo intrecciato sia possibile aiutare il soggetto in età evolutiva ad inserire i suoi problemi passati e presenti nella prospettiva di un futuro da costruire con originalità». Il modo di approcciarci con i ragazzi non è cambiato come si evince più compiutamente dai principi, dalle linee programmatiche e dal progetto educativo istituzionale della Fondazione. La caratteristica distintiva di questa nuova struttura di accoglienza è la concezione del lavoro educativo inteso come condivisione e conoscenza dell’altro da sé, superamento delle diverse forme di disagio e di marginalità, analisi delle diverse problematiche, osservazione delle dinamiche relazionali e interpersonali, e in particolar modo la partecipazione continua all’evoluzione dell’esperienza quotidiana (ventiquattr’ore su ventiquattro); ottimizzazione delle risorse umane (professionalità diverse nell’arco di una giornata lavorativa); obiettivi educativi prefissati e concordati, valutazioni periodiche dei progetti; monitoraggio permanente del percorso comunitario; osservanza alle prescrizioni stabilite dall’autorità affidante. Contenere e migliorare le relazioni familiari ed ambientali; fasi e tempi per un efficace reinserimento nella famiglia d’origine o per l’affidamento o per l’adozione.

Prima di prendere in esame una nuova richiesta di inserimento nella comunità educativa residenziale (l’ospitalità è limitata a dieci minori) viene effettuato un lavoro di analisi sia sul vissuto del minore, sia sulle dinamiche del gruppo già residente, analizzando lo “spazio mentale” che presumibilmente può essere messo a disposizione del nuovo ospite, in riferimento sia alla dimensione affettiva-emotiva che alle risorse che oggettivamente potranno essere impiegate nella nuova relazione educativa. Capire infine la compatibilità con il gruppo di minori già residenti per metabolizzare la nuova presenza.

D.: Insomma la necessità di rispondere a un servizio “di affidamento istituzionalizzato” non ha cambiato la vostra identità.

Tagliaferro: Non ha cambiato la nostra identità, ha solo ampliato l’azione educativa e sociale in relazione agli aspetti legislativi, regolati dalla legge 184 del 1983 e successivamente modificata dalla legge 149 del 2001.

L’identità del nostro lavoro si è sempre distinta e caratterizzata con le diversificate segmentazioni a cui afferiscono laboratori ed attività: COMUNICAZIONE VISIVA (disegno, pittura, arti applicate, scultura, modellato, incisione, calcografia, fotografia, videotape);

LIBRO, INFORMAZIONE E INFORMATICA (educazione alla lettura, sostegno e recupero scolastico, computer grafica, editoria);

PICCOLO ARTIGIANATO (modellismo, bricolage, falegnameria, ceramica); GIOCO, ANIMAZIONE E ATTIVITÀ MOTORIA (ludoteca, psicomotricità, attività sportiva); SPETTACOLO (teatro d’attore, animazione teatrale: marionette, burattini, pupazzi, ombre, suoni onomatopeici, canto e coro, educazione strumentale);

TEMPO LIBERO E CULTURA (incontri d’esperienza, beni culturali, itinerari turistici, biblioteca, videoteca). A Taranto e in provincia ci dicono che siamo gli unici ad avere questi laboratori e queste specifiche attività. Utilizziamo il linguaggio dell’arte con le sue diversificate espressioni, anche come terapia per poter meglio operare non solo con i minori ma anche con il nucleo familiare, coinvolgendo genitori e ragazzi in incontri, riunioni e feste. La peculiarità è in questo sistema: abbiamo uno spazio nel quale il bambino ha il piacere di stare, sa che c’è un adulto presente che gioca con lui. Quando entra nei laboratori ne diventa protagonista, comincia a fare alcune cose e noi ci agganciamo a quello che fa. Il nostro intervento è invisibile fa da guida al minore che non si accorge di questa guida ed è convinto che tutto quello che fa parta per sua volontà. Un modello pedagogico attivo, una dimensione ludica tra giuoco, avventura e sperimentazione, un tangibile clima distensivo nel quale il minore agisce per il piacere ed il gusto stesso di “fare”, lasciandosi coinvolgere completamente senza sentirsi giudicato e senza dover giungere necessariamente alla realizzazione di un manufatto finale. Il rispetto delle regole si manifesta dopo un brevissimo periodo di intensa attività in maniera spontanea. Nel momento in cui prelevano del materiale di propria iniziativa, lo ripongono, senza che nessuno debba dirglielo. C’è rispetto dei beni utilizzati, sanno che i materiali sono un bene comune.

D.: Acquisiscono il valore degli strumenti a disposizione della propria creatività.

Tagliaferro: Una acquisizione che li rende felici nella misura in cui

si sentono partecipanti attivi di questo spazio. A differenza di quanto avviene a scuola, qui non c’è la maestra che ordina ciò che si deve fare. Ma è il minore che sceglie, seguito dall’operatore, che poi, di conseguenza, interviene anche per modificare le cose che vanno modificate. Allo stesso modo intervengono la psicologa, la pedagogista. Il minore non viene mai lasciato solo. Questa interazione è fondamentale per redigere un proficuo progetto educativo su ognuno di loro. Non dobbiamo mai dimenticare che vanno risolti i problemi che ogni bambino porta con sè e questo resta lo scopo principe del nostro lavoro. Non discutiamo mai a priori sulle problematiche legate al minore. Il primo approccio con il minore è “L’Isola della fantasia”, dove osserviamo il bambino in tutto il suo essere. I minori hanno bisogno di luoghi in cui potersi organizzare, vivere relazioni positive, riferirsi con continuità a validi modelli di comportamento, acquisire corretti schemi di condotta. È ne “L’Isola della fantasia” che il minore riesce a liberarsi dai condizionamenti, dalle paure, dalle afflizioni.

D.: Il rapporto con gli artisti rimane ancora una costante?

Tagliaferro: Certamente. I nostri ragazzi partecipano attivamente alle attività artistiche. Recentemente abbiamo realizzato un workshop sul tema “Arte e Cibo”, partendo da una mostra realizzata da un gruppo di giovani artisti. Abbiamo affrontato lo stesso tema con i ragazzi, consapevoli del fatto che esistono diverse problematiche legate al rapporto con il cibo, come l’anoressia e la bulimia, patologie che si stanno sviluppando – soprattutto in questi ultimi anni – eccessivamente. I bambini e i ragazzi coinvolti nel workshop hanno prodotto, con il contributo dei giovani artisti, entusiasmanti elaborati, bellissimi e diversi sul tema, frutto di fantasia, di immaginazione e di creatività. La qualità delle cose che vediamo – affermava Bruno Munari – determina la qualità della nostra vita. Il rapporto con gli artisti rimane una costante importante, che unita-mente ai laboratori, sviluppa nei minori conoscenza, competenza e abilità, offrendo ai piccoli protagonisti nuovi stimoli tra stupore, scoperta e meraviglia, come in questo particolare progetto legato all’importanza del cibo.

La creatività – condivido il pensiero della psicoterapeuta Maria Rita Parsi – ha una funzione salvifica: è come la clorofilla. Ne abbiamo bisogno per respirare, trasforma il male in fondo all’anima in ossigeno.

D.: Il concetto di creatività che viene fuori con il suo valore terapeutico, pedagogico, umano pregnante, al confronto del mondo degli adulti che si occupano di arte, e quindi della sua mercificazione, non pone problematiche, non stimola in qualche modo a recuperare il concetto di creatività autentica?

De Mitri: La creatività è insita in ogni essere umano, sta ad ogni

singolo individuo tirarla fuori. Potenzialmente tutti possono essere creativi ma non è detto che tutti siano artisti. Spesso sono straordinari artigiani. Si possono “aprire” in ciascuno di noi, nel proprio ambito professionale, degli spazi più che di creatività di creazione senza per questo ci si debba sentire un Picasso o un Duchamp. Munari, Folon, Piantoni, Lodi, e Rodari hanno sempre sostenuto che per risolvere qualsiasi problema bisogna far ricorso alla creatività. La creatività “non sta nel trovare nuovi paesaggi – come affermava Proust – ma nell’avere occhi nuovi”. Paragonare la creatività col mercato dell’arte non è possibile. Il sistema del mercato segue le sue logiche e poco s’interessa della creatività. Se il manufatto artistico è una crosta ed entra ugualmente nel sistema è un manufatto che “rende”. Anche se viene definito opera d’arte. Oggi poi assistiamo spesso a un fenomeno di pedissequo attaccamento alla cronaca. Troppi artisti si sono sostituiti ai mezzi di comunicazione. I temi dell’arte sono trattati con un futile attaccamento alla cronaca quotidiana, all’apparire soprattutto. Si parla di emigrazione, di povertà, di emarginazione. Ecco opere fotografiche, pittoriche, video, ecc., che riproducono stereotipati volti di migranti, di barboni distesi nelle stazioni ferroviarie… Forse l’artista ha perso la genialità? Non propone più idee e temi legati alla profondità dell’essere? Non ha più lo “sguardo lungo”?

Se la creatività artistica pur di apparire si riduce all’effimero, alla semplice e superflua provocazione, allo scoop, vuol dire che si sta perdendo l’essenza vera dell’arte. Come aveva affermato il grande teorico dell’arte Harald Szeemann, in occasione della Biennale di Siviglia, “l’arte non deve essere un commento all’attualità, ma deve offrire nuove aspettative, attraverso l’intensità del presente. Non c’è uno stile predominante o una tendenza lineare: è una passeggiata tra sorprese che approfondiscono la visione di illusioni, relazioni, corrispondenze, affetti ed emozioni.”

D.: Gli artisti che hanno partecipato alle iniziative de “L’Isola della fantasia”, che reazione hanno avuto? C’è chi ha mostrato disagio, chi ha fatto delle “scoperte”? Le teorie munariane sulla capacità del bambino di insegnare la creatività anche all’adulto, trova riscontro nelle esperienze che si conducono ne “L’Isola della fantasia”? E quanti artisti resisterebbero alla controprova del confronto con un bambino?

De Mitri: Certamente non tutti gli artisti coinvolti in questi anni

hanno avuto le capacità pedagogico-didattiche di sapersi approcciare efficacemente ai nostri ragazzi. Molti erano completamente distanti. Alcuni trovandosi in una situazione particolare sono riusciti con fatica ad interagire. Ricordo, a mo’ di esempio, l’evento “Gioco blu” realizzato nel 2000, in cui coinvolgemmo una ventina di artisti provenienti da tutt’Italia: c’era chi aveva una predisposizione innata, chi aveva una capacità didattica specifica e chi invece era completamente “assente”, restio alla partecipazione attiva coi bambini. Ma posso dire che, dopo un’intera giornata di lavoro, anche questi artisti completamente “assenti”, forse poco sensibili al rapporto con l’infanzia, si sono così entusiasmati che hanno, quasi, reinventato il loro modo di vedere le cose. Sono stati affascinati, trasportati sull’onda di un clima gioioso e coinvolgente… Il bambino, da parte sua, quando si trovava di fronte a una macchia di colore buttata lì – a differenza dell’adulto che, sull’onda dei propri stereotipi e pregiudizi chiede “ma cos’è?”– ha reagito inventando una storia così particolare che l’artista, che non aveva mai avuto esperienze simili ne usciva colpito, aveva scoperto una nuova realtà. Artisti come Picasso, Mirò, Dubuffet, Depero affermavano che, se riuscissimo a cogliere l’essenza del disegno di un bambino e a disegnare come uno di loro, avremmo provato una gioia incredibile. A volte siamo troppo accademici, anche perché recuperare lo stadio primordiale è difficile. Invece questo sforzo, questo work in regress è importante. Il disegno infantile, che è la manifestazione della libera creatività, avulsa da condizionamenti e sovrastrutture culturali, ha profondamente interessato gli artisti delle avanguardie storiche e spesso ha costituito una fonte diretta di ispirazione artistica. Ne sono un esempio, in tale senso, le raccolte di disegni infantili di Kandinskij e Münter, i dipinti di Paul Klee e le opere di altri autori che hanno osservato con grande attenzione il mondo dell’infanzia. Ho anche notato in alcuni artisti la naturale predisposizione alla collaborazione: si sforzavano di disegnare in maniera elementare, per far capire al bambino che non c’erano difficoltà. Nella pratica del laboratorio non bisogna mai evidenziare o criticare la qualità dell’immagine realizzata dal minore. Il bambino sa o non sa disegnare, non ha importanza. Criticare l’elaborato del minore in senso negativo rischia di bloccarlo completamente. Gli devi lasciar fare quello che egli sa fare e sicuramente, con il passare del tempo migliorerà. Ma nel nostro lavoro l’obiettivo non è quello di creare artisti e tanto meno artisti in erba. Il nostro metodo ha privilegiato in primis il linguaggio visivo come strumento educativo. L’occasione è propizia per rafforzare il concetto attraverso le parole del noto storico Herbert Read il quale affermava nella sua pubblicazione “Educare con l’arte” che «non abbiamo l’intenzione di formare degli artisti di professione. Diventare un bravo pittore o scultore, a livello professionistico, richiede un lungo addestramento tecnico che può essere impartito, come in effetti avviene, solo da istituzioni specificatamente volte a questo scopo. Insegnamo ai fanciulli a parlare, ma non ci aspettiamo per questo che tutti diventino degli operatori. Insegnamo loro a scrivere, ma non ci aspettiamo che diventino degli scrittori. Allo stesso modo, possiamo insegnare loro a disegnare, a dipingere e a modellare, senza peraltro aspettarci che l’arte debba diventare l’unica vocazione della loro esistenza. Ciò che vogliamo insegnare ai fanciulli, attraverso questi strumenti, è l’uso di particolari mezzi espressivi, i suoni, le parole, le linee, i colori, rappresentano una sorta di materiale grezzo attraverso il quale il bimbo deve imparare a comunicare con il mondo esterno. Ha a disposizione anche alcuni gesti, combinabili con i suoni, le parole, i segni grafici e i colori. Per un bambino la difficoltà di farsi capire è inizialmente enorme, quindi egli usa qualunque mezzo abbia sotto mano: il suo è un impegno totale per esprimere se stesso, i propri sentimenti e i propri desideri».

D.: Il minore, da parte sua, che tipo di contributo dà all’artista, in senso lato, in ogni disciplina in cui opera? C’è sicuramente una fonte di ispirazione che il bambino fornisce in questo rapporto con-creativo. Che cosa si riscopre, di dimenticato magari delle proprie radici, che transita dal bambino all’adulto?

Tagliaferro: Credo che l’adulto, artista o educatore che sia, che si relazioni con il minore attraverso le attività, debba cogliere nel rapporto con lo stesso innanzitutto la sua genuinità. Il bambino si accosta all’attività incuriosito, senza porsi domande del perché l’adulto gli proponga qualcosa. Il bambino si avvicina con la sua spontaneità perché è incuriosito da quello che l’adulto lo invita a fare. Importante è “il fare”. Il bambino osserva ed inizia ad imitare, lavorando spontaneamente, senza chiedere il perché di quello che si fa. Poi se vogliamo guidarlo per raggiungere un determinato obiettivo, gli offriamo dei modelli più definiti. Quando si realizza questo clima di serenità e di libertà nasce la condivisione spontanea, si crea quasi una “simbiosi”. Tra il minore e l’adulto si innesca una trasmissione non verbale di grande impatto emotivo: l’empatia, una dimensione affettivo-emotiva spesso ignorata dalla scuola e dagli educatori. L’emotività e l’affettività hanno un’importanza determinante nello sviluppo della personalità. Un giusto grado di attivazione emotiva è necessario per intraprendere qualsiasi attività, e se nell’ambito di vita non si instaurano relazioni socio-affettive positive, il soggetto non desidera, quindi, far parte del gruppo, non cerca di imparare, nè si propone, nè agisce.

I minori accolgono molto volentieri il comportamento non verbale. Attraverso “il fare” trasmettono le emozioni, utilizzando come viatico, un colore particolare, una forma insolita, un disegno, che sono carichi di messaggi. Educatori e genitori dovrebbero “imparare”a decifrare questi elaborati per darne una giusta interpretazione. Una ”finestra sulla mente”, per osservare e cogliere lo sviluppo delle abilità e delle emozioni. Il disegno del bambino esprime e fa emergere il proprio mondo personale e nel farlo prova piacere perché è libero e non deve sottostare a regole e divieti. Se poi ci trasferiamo dall’espressione visiva all’animazione teatrale ecco venir fuori ulteriori situazioni problematiche dove il minore esteriorizza quelle che sono le sue paure. I bambini attraverso le loro storie familiari inventano delle storie, in cui trasferiscono la loro situazione familiare, senza esplicitarla: nei dialoghi inventano le domande e le risposte che pongono all’attenzione diversificati problemi che vivono concretamente nella quotidianità. Una proposta educativa proficua e coinvolgente costituisce la risposta ai bisogni nascosti e reali del minore. Da lì l’educatore – attraverso un’attenta osservazione – può trarre delle proficue informazioni per, poi, avviare l’intervento educativo. Ma molto è dato anche dal rapporto che si riescie ad instaurare ed a consolidare con il minore nella quotidianità. Si possono conoscere tutte le teorie pedagogiche esistenti, ma se non hai quel quid in più (To care: farsi carico del bisogno educativo), che nasce e si genera da un mix di esperienza, ricerca e studio dei diversi saperi unitamente a predisposizione e sensibilità, la relazione educativa con il minore non si instaurerà.

Un esempio significativo è stato, quest’anno, il laboratorio delle emozioni, realizzato attraverso le arti visive. Solitamente il colloquio funziona con gli adulti ma non con i bambini. «Si può insegnare tutto a tutti purché ci si metta dalla parte di chi impara», come affermava il noto psicologo dell’educazione J. Bruner. Una proposta di apprendimento intelligente deve tenere conto di diversificati fattori: le esperienze pregresse del soggetto, le sue condizioni di vita, la sua mentalità, la cultura di appartenenza, le condizioni socio-economiche e ciò che ha già imparato, ha capito e sa fare. Se il bambino scopre che sei uno psicologo scatta una reazione di chiusura. Sanno che stai studiando la loro testa. Anche gli specialisti (psicologo, pedagogista, sociologo, etc.) che operano nelle nostre strutture devono, in un certo senso, “mascherare” la propria identità professionale, integrandosi al progetto istituzionale della Fondazione, con senso di appartenenza e di condivisione per meglio osservare e percepire tutte le dinamiche relazionali e interpersonali che appartengono alla vita del minore, nell’evoluzione quotidiana del progetto educativo.

Si riscopre nel nostro “dimenticato” la capacità del gioco simbolico. I bambini ci sorprendono continuamente e non solo per la loro capacità di gioco simbolico, ma soprattutto per una versatilità e flessibilità naturale ed innata che, con il tempo, gran parte degli adulti tende a perdere lasciandosi offuscare dall’uso di “comodi schemi stereotipati”, che qualcuno a monte ha già stabilito universalmente per tutti.

D.: In una società in cui le ragazzine sono spinte alla competitività a partire dalla propria immagine, e in cui tutto è competitivo, dalla scuola alle veline, voi non dovete fare i conti con questo atteggiamento, a volte istillato dalle famiglie?

Tagliaferro: Parlare di competitività non è il termine giusto in un

contesto dove vi è, nella maggioranza delle famiglie di appartenenza dei nostri ragazzi, una povertà materiale e immateriale, una difficile condizione economica e culturale. La propria immagine nel contesto di queste famiglie, per certi versi, diventa secondaria e non lascia spazio alla competitività che proviene dall’esterno. Durante l’adolescenza tutti i ragazzi avvertono un disagio strettamente legato alla propria identità. Sono confusi, vivono una conflittualità nei confronti del proprio corpo, del proprio aspetto fisico e nelle regole sociali. I messaggi “disturbanti” dei media, la crisi dei valori e dei modelli familiari, le prospettive circa il futuro precario e incerto accrescono ulteriormente tale disagio. Il malessere giovanile si manifesta in molte forme: abbandono scolastico, malattie psico-somatiche, anoressie, bulimie, bullismo, fughe, tentativi di suicidio, comportamenti devianti, etc.

Ecco che molti adolescenti si identificano in un gruppo di appartenenza. Nel gruppo i ragazzi si sentono meno soli, si confrontano, si sentono forti, meno emarginati. Il nostro lavoro, per alcuni, parte da qui. Per i più piccini si “previene”; un esempio è l’educazione all’immagine come risposta alla fruizione passiva dei messaggi mass-mediali. L’educatore diventa così “animatore” nel rapporto bambini-immagine, si sceglie insieme un film, un giornalino, un programma, o il testo di una canzone motivando insieme le scelte (nel contempo con implicita azione educativa lo stesso non “fa” dimenticare il gioco, i rapporti sociali e le esperienze dirette), cerca di stimolare la discussione, come sosteneva il grande pedagogista Pestalozzi: «Il mio comportamento si basava su questi principi:

cerca prima di tutto che i tuoi ragazzi ti aprano il cuore e, mentre soddisfi i loro bisogni quotidiani, cerca di ispirare amore e carità nei loro sentimenti, nelle loro conoscenze e nelle loro azioni, fino a quando saranno ben radicati nel loro intimo; allora insegna ai tuoi ragazzi molte attività utili, perché possano mettere in pratica il bene appreso da te. Soltanto in ultimo ricorri a quei pericolosi simboli del bene e del male che sono le parole: e bada di collegarle ai fatti quotidiani della casa e dell’ambiente. Solo su questi si devono basare le parole, se vuoi che i tuoi ragazzi comprendano che cosa accade in loro e fuori di loro, se vuoi che le parole servano a far nascere il modo giusto e buono di considerare la vita e i compiti della società».

D.: Ma il portato creativo di un bambino disagiato non è diverso da quello di un bambino “non a rischio di devianza”?

Tagliaferro. Più che diverso direi educato a tirar fuori le proprie

potenzialità, perché gli sono state fornite tanti occasioni e tanti stimoli, il bambino disagiato ha meno stimoli. La sua “creatività” è una creatività soppressa, soffocata perché deve lottare prima di tutto per soddisfare i suoi bisogni primari, si preoccupa soprattutto di “tirare avanti”, perché la sua famiglia ha molti problemi, (il papà che non lavora e deve “arrangiarsi”, ha numerosi fratellini e sorelline, etc.)… sono già “piccoli adulti”. Quando i minori si presentano nelle nostre strutture educative sono dapprima timidi, impacciati, introversi, direi “quasi adultizzati” poi ri-scoprono, attraverso le varie attività, di essere “bambini”. E nel momento in cui giochi con loro inizi a far emergere la loro creatività soppressa, quel tuo esser bambino con i bambini aiuta molto. Nel momento in cui tirano fuori le proprie potenziali capacità, cominciamo a guidarli programmando percorsi educativi, si fanno notare loro alcune specifiche capacità che non riguardano solo l’attività teatrale, le arti visive, ma anche altri saperi di natura umanistica e scientifica. «Lo spirito creativo – come afferma Paul Kaufman – è l’alito della vita, è dentro di noi, qualsiasi cosa facciamo. Il difficile sta nel liberarlo».

D.: Ma non è sempre stato un successo, immagino. È evidente e giusto che si tenda sempre a esaltare l’attività e, di conseguenza anche i successi, ma si può intuire che un lavoro così complesso non possa ambire a risolvere sempre tutti i problemi. Anche al vostro interno possono nascere contrapposizioni.

Tagliaferro: Non misuriamo il nostro lavoro sul successo o sull’in-successo, ma sui possibili risultati e i suoi reali sviluppi del percorso educativo. È naturale che ci possano essere contrapposizioni. Sono proprio queste che affrontiamo, durante le riunioni, con l’équipe socio-psico-pedagogica, che ci permettono di evidenziare alcuni aspetti del problema e di stilare il migliore percorso, progetto-educativo nell’interesse del minore. Ogni educatore è libero di esprimersi, ma soltanto insieme che stiliamo il progetto educativo, “visto” dai nostri diversi aspetti professionali. È importante ciò che fai e come lo fai. Ogni volta che un bambino trova la sua strada (esperienza della propria individualità) siamo lì con lui e gioiamo, in caso contrario siamo sempre lì con lui, lo incoraggiamo, lo apprezziamo e continuiamo a lavorare per raggiungere l’obiettivo educativo, senza scoraggiarci e senza

D.: Ed è evidente che anche l’ambiente attorno a voi non sempre accoglie questa vostra presenza. È storia la distruzione del vostro primo laboratorio, appena realizzato nel 1988, da parte di vandali. Siete, in fondo, anche un presidio in un ambiente particolare.

Tagliaferro: Una riflessione di carattere sociologico investe la mia

idea di ambiente periferico. Gran parte di queste aree urbane specifiche sono abitate da classi sociali più povere, con minore reddito, disagio abitativo, consumi limitati, povertà e miseria. L’abitante delle periferie rivendica la dignità del suo status di cittadino perché statisticamente la periferia rappresentava prima una piccola parte della città, oggi invece rappresenta la maggior parte del sistema insediativo. Chiaramente il centro storico della nostra città è una periferia atipica, svuotata da anni dalla poca attenzione sia a carattere urbanistico che sociale. La città antica è un deserto e quel poco che accade di propositivo è grazie all’impegno di pochissimi imprenditori che hanno investito sull’“isola”. All’inizio della nostra attività siamo stati considerati degli stranieri che volevano colonizzare l’isola. Al di là di qualche episodico problema, come tu giustamente ricordavi, i pochissimi abitanti del centro storico hanno percepito, ormai da anni, il contributo di solidarietà che la Fondazione offre all’intero quartiere. Le difficoltà a volte provengono da ambienti che dovrebbero invece sostenere il nostro lavoro. Il primo presidente del Tri-bunale per i Minorenni di Taranto, dott. Bernardo Mastrogiacomo, affermò pubblicamente che la Fondazione “è una realtà culturale vera e colta, una risorsa per il territorio, un’isola nell’isola, aperta a tutti i contributi e a tutte le possibili collaborazioni”. In circa 25 anni di assiduo lavoro la nostra istituzione si è consolidata, integrandosi sempre più al cuore antico di Taranto e nel contempo allargandosi sempre più e volgendo lo sguardo alle nuove istanze sociali che investono l’intero territorio tarantino. È un concetto vecchio ed obsoleto quello di creare una opposizione tra centro e periferia, come affermano numerosi architetti e urbanisti. Le città nella prefigurazione urbanistica futura dovranno essere policentriche, cioè diversi centri con immagini, identità e specializzazioni diverse.

D.: Certamente questo è un lavoro che richiede la messa in campo, da parte vostra, di tanta emotività. Non si tratta di un lavoro impiegatizio. Come si rientra sempre nelle motivazioni necessarie?

Tagliaferro: Sono i ragazzi la nostra linfa vitale. È logico che, con il passare degli anni, possa anche subentrare la stanchezza. La voglia di fare ce l’hai sempre ma a volte ti manca l’energia, vai in crisi (il classico burn-out), poi il contatto quotidiano con i ragazzi ti ricarica e ti rivitalizza subito. Sono vitali e necessari, per noi, i corsi di formazione, di aggiornamento; è importante confrontarsi con “altre” figure professionali, che possono sostenerci con ulteriori contributi teorici e operativi. All’interno delle nostre strutture, organizziamo workshop, giornate di studio, che ci forniscono sempre nuovi stimoli e arricchiscono il bagaglio culturale di ciascuno di noi, abilitandoci a nuove situazioni, imparando a fare anche le cose difficili… Mai chiudersi nel proprio sapere.

D.: A De Mitri vorrei chiedere: un bambino creativo è un bambino felice? Se è sì, l’esperienza dell’arte diventa progetto educativo?

De Mitri: Siamo partiti da numerose esperienze di Pedagogia attiva (da Rudolf Stainer a Read, da Montessori a Lodi a Rodari), e l’azione educativa si è perfezionata grazie all’incontro con il pensiero di due grandi maestri dell’arte contemporanea: Joseph Beuys e Bruno Munari (il primo nel 1985, il secondo nel 1989). Seguendo l’insegnamento di questi due grandi maestri, la Fondazione ha basato i suoi interventi educativi sulla costruzione secondo cui ogni uomo è un artista non nel senso che ogni uomo è pittore o scultore ma nel senso che ogni persona può avvalersi della creatività nell’esercizio di una professione o di un mestiere o di qualunque altra attività. Per la Fondazione educare significa responsabilizzare i soggetti, coinvolgendoli in atteggiamenti di coerenza, di auto-dominio, di razionalizzazione dei dati e delle ipotesi in vista di finalità fondanti. Il progetto educativo che la Fondazione realizza attraverso la Comunità educativa “Guglielmo De Feis” e il Centro diurno “L’Isola della Fantasia” si concretizza nell’esercizio attivo di libertà e di responsabilità. L’educazione, oggi, è l’unica speranza per la promozione di una società autenticamente democratica, in cui diventa “l’ideale regolativo” in base al quale orientare il miglioramento della vita umana. L’impegno educativo richiede come sua strategia metodologica la promozione della partecipazione, perché fasce sempre più ampie di persone si motivino nella ricerca, nell’identificazione, per il perseguimento di obiettivi socialmente condivisi. L’esperienza dell’arte è uno dei veicoli più importanti per una sana esperienza educativa (identità distintiva della nostra istituzione), ambito privilegiato, trasmissione di saperi, strumento di vera comprensione per leggere la realtà e noi stessi. Lo spirito di fondo, come si è già detto, che ha animato sin dall’inizio il nostro progetto, è stato quello di promuovere l’esperienza diretta dell’arte come pratica educativa. L’arte è per noi una sorta di ipertesto, contenitore in cui confluiscono i tanti saperi. Una didattica laboratoriale che diventa pedagogia attiva, che è metodologia e che si esprime con la grammatica visiva, attraverso materiali, strumenti e tecniche dell’arte, ovvero, conoscenza e abilità, teoria e téchne, un fare e un sapere intrecciati insieme per agire e raggiungere obiettivi e finalità. Il saper fare sempre più del sapere e basta. Le pratiche dell’arte sono un flusso di emozioni, di pensieri, di riflessioni, di conoscenze, di informazioni che agiscono sulla nostra vita intima più segreta, in modo silente e nascosto, salvo poi a stupirci e ad emergere in tutta una serie di scelte, consapevolezze, responsabilità, ordini morali ed etici, che diventano l’espressione tangibile di quello che l’esperienza artistica ci ha dato. L’esperienza dell’arte a tutte le età ci fa muovere nel nuovo, modifica i punti di vista sulle cose e sugli eventi, dà alla vita il senso dell’avventura e della meraviglia, contribuisce a valorizzare con successo le risorse intellettive, emotive e affettive. Sviluppa, inoltre, rapporti tra gli individui: si fanno cose insieme, si discute, ci si confronta, ci si influenza a vantaggio del progresso e dell’originalità, si impara a mettersi in discussione aprendo il dialogo e il confronto con gli altri.

Abbiamo potuto constatare, in tanti anni di assiduo lavoro, che l’esperienza dell’arte sviluppa ulteriormente la creatività. «Tutta l’arte visiva – antica o moderna o contemporanea – è carica di metafore, allegorie, simboli rivelatori di visioni dal vasto potere comunicativo e suggestivo. Ogni opera è fatta da mille storie per immagini da scoprire e da capire. Storie reali e fantastiche, possibili e impossibili,banali e incredibili. Storie senza storia che lasciano il lettore – o meglio l’osservatore – assolutamente libero di cercare, esplorare, indagare, svelare quello che preferisce.»1 Ci siamo resi conto che bambini e ragazzi, a differenza degli adulti, non hanno pregiudizi o stereotipi, istintivamente sono pronti a ricevere tutti gli stimoli che l’ambiente circostante trasmette. I loro ricettori sensoriali sono aperti e pronti a memorizzare. L’azione educativa è la capacità di individuare il maggior numero possibile di potenzialità di cui l’uomo è portatore originario. Pertanto, progettare, organizzare e gestire servizi in prospettiva educativa, significa possedere una consapevolezza piena del significato dell’educazione. Per il valore che l’educazione esprime oggi, non esistono ricette né modelli, perché essa non può mai costituire un prodotto finito, ma un continuo processo di ricerca, di esplorazione, il cui campo non cesserà mai di espandersi, perché non avrà mai fine.

L’esperienza dell’arte, che poteva inizialmente apparire solo un accessorio ricreativo, anche se molti sono ancora refrattari a questo modus operandi ha, invece, dimostrato di rivestire un ruolo importante, quello, per esempio, di abbattere una serie di pregiudizi e di stereotipi che accompagnano, a diversi livelli sociali e culturali, la nostra contemporaneità.

1 Maria Vinella (a cura di), Raccontare l’arte, Progedit, Bari, 2007.

L’esperienza giocosa dell’arte è entrata da tempo nelle nostre strutture con i Laboratori (recentemente prescritti dall’ultima riforma della scuola), percorrendo così genialmente il modo di trasmettere il sapere non solo artistico. In questa nostra società caratterizzata da un’eclissi di valori, l’esperienza dell’arte diviene l’occasione per instaurare nuovi percorsi educativi capaci di garantire un rapporto di continuità con il passato e d’introduzione al futuro. Educare con l’arte nutre il nostro immaginario, sollecita il pensiero ad andare oltre, ci fa guardare in modo diverso alle stesse cose, significa guardare a cose diverse. È un ulteriore arricchimento, è un’occasione di crescita individuale, processo di apprendimento che nasce da un rapporto emotivo, estetico, razionale, ci sottrae alle abitudini che finiscono con il costituire un ostacolo alla conoscenza di noi stessi e del mondo che ci circonda, ci aiuta a decodificare la realtà, favorendo nuove domande, stimolandoci a nuove relazioni con gli altri, ci predispone al dialogo e ci aiuta a trovare nuovi punti di contatto, a formulare nuovi interrogativi. La dimensione narrativa ritrova così il suo spazio. Chi osserva dedica tempo a se stesso, attua una condivisione importante,“impara ad imparare”.

D.: In conclusione se guardassi indietro, a questo percorso di 25 anni, e ti chiedessi che cosa è cambiato in tutta questa dinamica e anche nel tuo modo di pensare al problema, cosa risponderesti?

De Mitri: Scrive il noto sociologo e filosofo polacco Zygmunt Bauman:

«La nostra vita è un’opera d’arte – che lo sappiamo o no, che ci piaccia o no. Per viverla come esige l’arte della vita dobbiamo – come ogni artista, quale che sia la sua arte – porci delle sfide difficili (almeno nel momento in cui ce le poniamo) da contrastare a distanza ravvicinata; dobbiamo scegliere obiettivi che siano (almeno nel momento in cui li scegliamo) ben oltre la nostra portata, e standard di eccellenza irritanti per il loro modo ostinato di stare (almeno per quanto si è visto fino allora) ben al di là di ciò che abbiamo saputo fare o che avremmo la capacità di fare. Dobbiamo “tentare l’impossibile”. E possiamo solo sperare – senza poterci basare su previsioni affidabili e tanto meno certe – di riuscire prima o poi, con uno sforzo lungo e lancinante, a eguagliare quegli stan-dard e a raggiungere quegli obiettivi, dimostrandoci così all’altezza della sfida».2 Se in tutti questi anni avessimo pensato alle critiche, ai tanti problemi, di diversa natura (ideologica, operativa o semplicemente strumentale), se ci fossimo intimoriti per gli attentati e le minacce, sia dalla malavita più spicciola, sia dai colletti bianchi, avremmo già dovuto tirare i remi in barca. Ma la nostra è stata ed è una sfida che continua, il coraggio di una presenza, un cammino consapevole, non solo per il quartiere ma per l’intera cittadinanza. Ci siamo detti: non è possibile che qualunque cosa si faccia in questa città debba miseramente naufragare. Il lavoro professionale si vede nella continuità e nel tempo. E proprio la continuità e il tempo ci hanno dato ragione, facendoci capire che stavamo operando bene. Ed è stata l’unica forza a farci resistere anche nei momenti più spiacevoli. Abbiamo lottato naturalmente con la “resistenza passiva”, la non-violenza che ci caratterizza eticamente e costitutivamente: abbiamo risposto col “fare”, incrementando sempre più le nostre attività, sopportando anche enormi sacrifici umani ed economici. Il senso del nostro operare, che non persegue altra finalità, è stato quello di rafforzare la nostra identità, di non vedere più gli altri come “fenomeni” particolari e diversi… Abbiamo imparato a vedere gli altri al pari di noi stessi, come baricentro di diritti e doveri e con il sentimento più nobile: quello dell’amore verso il prossimo. Una società veramente a misura di uomo, anzi di bambino, deve porre l’essere umano, pienamente libero ed integro tra i suoi simili. Valorizzare l’uomo per quello che è e non per quello che può Molto è cambiato in questi anni, anche nel nostro modo di pensare,ma crediamo che non sia cambiata la vocazione educativa, la quale “è sempre prima di tutto, vocazione all’amore, a prendersi cura delle sorti dell’altro, sguardo attento e sempre fiducioso, forza liberatrice a servizio di coloro che ci sono affidati, affinché possano trovare in loro stessi le energie per crescere e realizzarsi”.3 Con gioia ci auguriamo che questa nostra realtà – ormai matura – un dono per i ragazzi, possa non finire mai!

2 Zygmunt Bauman, L’arte della vita, Edizioni Laterza, Bari, 2008, p.27. 3 Michele De Beni ed., Essere educatori, coraggio di una presenza, Edizioni “Città Nuova”, Roma, 2013.